Abbiamo colto l’occasione di un concerto dei Savana Funk (gruppo spalla di Jovanotti ai Jova Beach Party) nelle nostre vicinanze per fare qualche domanda ad Aldo Betto, l’energico chitarrista e frontman del gruppo, spaziando da domande sulla loro musica a dei consigli per i nuovi gruppi.

Iniziamo con le novità: raccontaci tutto del vostro nuovo album.
Allora, questo è il quarto lavoro come Savana Funk, il disco si chiama “Tindouf”, e prende il nome da una città Algerina che, di fatto, ospita un campo profughi enorme. Abbiamo voluto mettere questo titolo proprio per volgere l’attenzione ad un posto che altrimenti è fuori dalle cronache quotidiane, quindi anche per invogliare le persone a informarsi su quello che lì sta succedendo.
Aldilà di questo, “Tindouf” è un disco fatto prima della pandemia, quindi è stato registrato nel febbraio del 2020 in uno studio dove non c’era nemmeno un computer, tutto analogico, come si poteva fare negli anni ’60, quindi senza le correzioni, o come si usa dire “alla vecchia”, come potesse essere stato fatto dai Rolling Stones nel 1968, cioè tutti nella stessa stanza senza autotune o tutte quelle cose che correggono il suono ed in un certo senso lo vanno ad ammaestrare, infatti è un disco che suona molto molto vivo.
Ed inoltre è il disco che preferisco.

Come immagini il futuro dei Savana Funk?
Allora, prima di tutto spero che quello che stiamo vivendo passi in fretta perché ho una gran voglia di andare in giro per il mondo a suonare come ho sempre fatto, e così il nostro futuro spero sia di poter suonare quanto prima all’estero.

Perché nella vostra musica scegliete di miscelare molti generi diversi?
Perché ci diverte suonare quello che ci piace, e quindi tutto sommato il percorso musicale varia, come a te piacerà cimentarti in stili e generi diversi della musica, io ho suonato dal Rock alla Bossa Nova, dalla musica africana al Blues, poi ad un certo punto è giusto anche trovare il proprio stile, la propria personalità, prima si impara a suonare imitando gli altri poi si trova il proprio stile che è l’insieme di tutto ciò che si ha ascoltato e assimilato.

Passiamo alle origini del gruppo: come vi siete conosciuti?
Eh, è forte questa. Allora, ci siamo conosciuti 6 anni fa, all’inizio dell’inverno del 2015. Conobbi Blake perché è amico di un mio caro amico, un chitarrista Bolognese, Paolo Prosperini, che mi disse: “Guarda c’è questo ragazzo che suona il basso in una maniera pazzesca, somiglia a Jimi Hendrix, è troppo forte”.
Così Paolo mi presenta Blake, solo che io volendo fare un trio, avevo già in mente un batterista, ma Blake mi fa: “Guarda, il batterista ce l’ho io” ed effettivamente con Youssef ci siamo trovati subito.
La prima prova è stata una figata, siamo andati a Imola perché la sala prove come da tradizione è a casa del batterista, così con Youssef ci siamo dati la mano e ci siam detti “buona suonata!”, e così sono passate in men che non si dica sei ore, abbiamo fatto un flusso continuo di coscienza, strumenti in mano, ed è stato davvero qualcosa di incredibile, e da lì non ci siamo più lasciati.

Adesso però siete in quattro, c’è una new entry.
Yes, Nicola collabora con noi fin dal primo album, e adesso abbiamo ufficializzato la collaborazione, ci siamo, come dire cercati, “annusati”, poi quando Nicola è disponibile suona con noi.
Dico quando è disponibile perché Nicola è uno dei più grandi session men italiani: è il pianista di Zucchero, poi ha registrato dischi con tutti, dalla Mannoia a Elisa, passando per Alessandra Amoroso eccetera eccetera, e quindi quando lui è a casa e suona con noi ci fa sempre un gran piacere, un grande onore, perché è un musicista pazzesco, tipo un “top player”, come se venisse Ronaldo a giocare con te.

Da cosa deriva il nome del gruppo?
Allora, questa la cosa è curiosa, perché all’inizio non ci chiamavamo così: il primi due dischi li abbiamo pubblicati con il nome “Aldo Betto with Blake Franchetto and Youssef Ait Bouazza”, un nome infinito che non aiutava a essere ricordato.
Quel nome era una derivazione, perché io ero innamorato di un disco di Bill Frisell con Dave Holland e Elvin Jones, e volevo fare una sorta di “Bill Frisell with Dave Holland and Elvin Jones”, poi però a livello di marketing non era il massimo.
Il nostro secondo album l’abbiamo chiamato Savana Funk, e quando andammo al Trasimeno Blues Festival, l’organizzatore mi fa: “Ma scusa, perché non vi chiamate Savana Funk, è un nome perfetto” e così capendo che aveva ragione abbiamo preso il nome dal disco e ci siamo chiamati Savana Funk.

Quindi è il disco che da il nome a voi, non il contrario.
Esatto, questa cosa è successa solo due volte nella storia della musica, noi siamo i secondi, i primi furono gli Headhunters, che presero anche loro il nome da un loro album.

Un’ultima domanda: che consiglio daresti ad una nuova band emergente?
E’ una bella domanda questa… La musica ripaga sempre, qualsiasi sacrificio vale la pena, ricordatelo sempre, e la musica è una cosa molto democratica perché si fa insieme, e bisogna imparare a colmare uno i pregi e i difetti dell’altro, e quindi suonando si impara a comunicare con gli altri, a rispettare le personalità, accettare le diversità, ed è una cosa che fa crescere moltissimo.
E poi la musica è una figata perché poi è un linguaggio che permette un sacco di cose, ti permette di comunicare con chi parla altre lingue, eccetera.
Quindi per un gruppo che ha voglia di suonare, l’importante è passare ore e ore a provare, ad esempio misurarsi con i brani degli altri che è un’ottima palestra sempre, e prima o poi iniziare a fare anche le proprie canzoni, perché quel passaggio di iniziare a creare la propria musica è una cosa che ti regalerà delle soddisfazioni impagabili, perché senti di fare qualcosa che proprio ti appartiene dal più profondo, ed è bello, molto bello.
E non demordere mai, perché la musica dà e la musica toglie, però è sempre positivo il bilancio.

Copertina dell’album “Tindouf”

Intervista di Damiano Germani ad Aldo betto